IO LEGGO/12: NIGHTHAWKS

Nicola Mariuccini: Nighthawks

di Antonio Fresa

 

Ci sono cocktail e cocktail si potrebbe dire, con una certa aria da avventori navigati di un locale amato per lungo tempo.

Ci sono barman e barman, potrebbe allora aggiungere qualcuno.

Ce ne sono di abili e creativi che sanno leggere negli occhi dei loro clienti.

Usano, questi artisti del mescere, un’arte antica che è fatta di attenzione all’umanità dei loro clienti: un passaggio breve a scrutare l’abbigliamento; un’attenzione vigile alla postura; una certa inclinazione a cogliere i lampi nello sguardo.

Ogni vero autore di cocktail sa essere a un tempo psicologo, sociologo, esperto della comunicazione e soprattutto empatico e accogliente.

Caetano, il protagonista di questo romanzo, è un barman che sa ascoltare, attendere e, soprattutto, consigliare il giusto incontro fra sapori ed emozioni.

Nel locale di Caetano, il Nighthawks appunto, Nicola Mariuccini costruisce incontri e dialoghi serrati, per farci scoprire i suoi personaggi che s’incontrano per pochi minuti o per costruire legami profondi.

Il quadro di Hopper, richiamato nel titolo, è forse quello più celebre dell’artista americano e offre, fin dal suo apparire nel ormai lontano 1942, un’atmosfera rarefatta e sospesa, con un effetto di luci che tiene insieme la solitudine dei protagonisti e il loro bisogno di andarsi ancora incontro, di dirsi ancora una parola, d’esercitare il proprio fascino e illudersi almeno di una possibile compagnia.

Un locale che si riempie di avventori silenziosi o desiderosi di fare quattro chiacchiere; un barista che sa offrire il cocktail giusto per ogni momento.

Ci troviamo a Monsaraz, in Portogallo, in una nazione ancora alle prese con la memoria del proprio recente passato.

Il Portogallo con la sua storia ancora recente piena di violenza; la vita di un uomo che, nell’apparenza della sua tranquillità, nasconde intrighi di vario livello; donne segnate per sempre da incontri con uomini senza amore vero: una galleria di personaggi, tanti ingredienti ben calibrati per questo cocktail da definire con un solo nome, Nighthawks.

Nicola Mariuccini, con una “ragnatela” intessuta con una fitta trama di dialoghi, ci introduce a una sequenza di eventi che possono mettere in forse anche le vite apparentemente più solide.

Il Nighthawks deve la propria fama alla volenterosa opera di un barista che insegue un sogno.

Le porte si aprono e la gente entra per fare i conti con i propri incubi notturni o con i sogni che non sempre trovano forza.

Alcuni avventori sono abituali fino al punto da creare una piccola comunità che trova il suo centro nella “filosofia” del drink: con gli occhi abbassati si sorseggia nel silenzio, scrutando il liquido che ci tiene compagnia; con gli occhi ben alzati si può ammirare la bellezza di una donna perduta o presente e incontrare gli altri, come amici per un tratto di strada, o come nemici da eliminare o evitare.

E così le serate passano, aggiungendo dettagli a dettagli, costruendo un quadro sempre più nitido dei personaggi che Mariuccini ci fa incontrare.

La realtà mostra crepe sempre più evidenti e tutto quello che sembrava chiaro, assume un tono diverso.

Il romanzo è tutto costruito da dialoghi diretti, senza alcun intervento a descrivere o commentare. E’ una tessitura di voci, di rimandi, di richiami; è una tessitura che vuole restituire il “sonoro” di personaggi che s’incrociano per bere qualcosa, di volti che si scrutano, di attese che si fanno pressanti. Una parola dopo l’altra, una conversazione dopo l’altra i personaggi si presentano nelle parole di chi siede appena accanto.

Nel finale del suo romanzo Mariuccini, uscendo infine dal chiuso del locale, ci ricorda con pochi tocchi e le giuste osservazioni dei protagonisti che la vita continua e che tanti ancora proveranno a inseguire i propri sogni. E’ tempo di andare, si direbbe; è tempo di uscire all’aperto e inseguire ancora qualche sogno.

 

Nicola Mariuccini
Nighthawks
Castelvecchi, 2017
Pag. 134; € 16,50

IO LEGGO/11: “CORRERE”, RACCONTARE LA VITA DI EMIL ZATOPEK

Jean Echenoz: Correre

di Antonio Fresa

 

Ancora parliamo di sport; allarghiamo lo sguardo oltre il calcio e recuperiamo la storia di una figura che ha assunto tratti mitici.

Emil Zatopek è stato qualcosa in più di un campione e di una leggenda. Emile Zatopek, per chi ama la corsa lunga e la fatica che cresce giro dopo giro, è stato ed è mito assoluto.

Un giro dopo l’altro, un passo dopo l’altro, con un’andatura che racconta sempre più la fatica, Emil sa andare ancora dove gli altri si fermano e sa isolarsi dal mondo nella concentrazione dello sforzo.

I miti delle Olimpiadi sono legati anche alla fatica e allo sforzo quasi impossibile.

Le Olimpiadi attirano la curiosità di milioni di spettatori che inseguono, nella gara sportiva, un sogno ancora da colmare; le Olimpiadi, come del resto è nella loro natura, hanno senso quando generano il mito e portano verso un traguardo insuperabile, un record ancora da affrontare.

Il fondo e il mezzofondo hanno creato eroi; uomini capaci di vincere e rivincere, assecondando la fatica, il sudore, la forza, la tenacia e anche la tattica e il controllo della corsa.

Prima, durante o anche dopo le Olimpiadi di Londra, è il caso di andare a ripercorre la storia di uno dei miti dello sport moderno.

Emil Zatopek, campione cecoslovacco, ha vinto quattro ori olimpici e un argento. La sua incredibile ascesa parte dalle Olimpiadi di Londra del 1948: primo nei 10.000; secondo nei 5000.

La sua impresa più epica, se si salta l’incredibile sequela di record sulle lunghe distanze, è legata alle Olimpiadi di Helsinki in cui vince 10.000, 5000 e (incredibile) la maratona.

Quando si narra la storia di un campione come Emil Zatopek, l’unico verbo da usare è appunto “Correre”, (Adelphi, 2009) il titolo che Jean Echenoz ha scelto per la sua ricostruzione della vita del grande atleta cecoslovacco.

Correre, come tardiva scoperta di un ragazzo semplice; una vocazione, una mania che non può essere più interrotta.

E i giri di pista di questo immenso campione s’intrecciano con i giri della storia e con il perverso sfruttamento dello sport operato dai regimi dei paesi dell’est comunista.

Esibito, acclamato come un monumento nazionale, l’imbattibile Emil sente, con il passare del tempo, su di sé crescere attese che non sono sue; si rende conto di essere uno strumento di propaganda.

“Correre”, come la libertà nel vento, come l’atto più naturale per questa leggenda; correre non è però sempre così semplice.

La sua partecipazione a tante gare in giro per il mondo lo rende sospetto al regime; ogni occasione potrebbe essere quella buona per una fuga, per una protesta verso il proprio paese.

Il campione, a tratti ingenuo, a tratti consapevole, chiederebbe soltanto di poter continuare la sfida con se stesso e di vivere una vita semplice e decorosa.

Non sarà così semplice; non sarà così facile rendere conto di ogni parola usata in ogni intervista.

E quella divisa, quei gradi sempre più elevati e sempre più ingombranti, lo faranno divenire un campione carico di gloria, ma sempre più triste.

Eppure il mito è rimasto solido nel tempo e non compromesso come tanti altri campioni.

Che cosa ha sempre salvato e reso unico Emil Zatopek? Che cosa ha segnato per sempre chi lo ha visto correre e correre e correre?

L’autore si sofferma a lungo su questo aspetto che riporta alla letteratura ed alla moralità del campione: lo stile di Zatopek è unico, è inimitabile.

Emile corre in modo sgraziato, poco elegante; il suo incedere sembra improduttivo perché in lui emerge la fatica, il dolore e la capacità di vincere il dolore.

Non bello; sicuramente epico, il suo correre è ancora nella storia dello sport e nella leggenda degli uomini che amano sfidare i limiti.

 

IO LEGGO/10: FIGURINE

Silvano Calzini: Figurine

di Antonio Fresa

Le figurine dei calciatori fanno parte, senza dubbio alcuno, della nostra storia nazionale e sono state compagne di vita e di gioco di generazioni intere.

Chi non ricorda la trepidante attesa nell’aprire la bustina per cercare la figurina mancante?

Chi non ha indossato almeno per una volta i panni dell’abile commerciante per scambiare figurine fin troppo diffuse per giungere in possesso di quella introvabile che impediva di completare la raccolta?

Direttamente o per vie traverse, le mitiche figurine ci hanno accompagnato in un’epoca in cui il calcio non aveva tutto il supporto delle immagini di oggi.

C’erano le figurine e c’era il racconto delle partite: da sempre si può dire, c’è stato un magico incrocio fra scrittura e immagine.

Lasciando libero spazio all’immaginazione, e usando gli ingredienti in maniera creativa, Silvano Calzini ci offre un “gioco” nuovo e ci regala uno stimolo.

“Cinquanta grandi scrittori raccontati come assi del pallone”: brevi, veloci biografie che mostrano gli “eroi” della parola come “eroi” del campo.

In che ruolo avremmo collocato Nabokov o Pasolini? Che carriera avrebbe fatto Bianciardi? Quali gesta hanno reso immortale Borges?

Mille domande e mille trovate di genio quelle di Calzini.

Come dimenticare la coppia di terzini composta da Fruttero e Lucentini? Come non sorridere quando Moravia è ricordato come “er Garincha de noantri”?

Da sempre le parole ci hanno fatto sognare il rotolare di un pallone verso una rete. E seguendo il pallone, Calzini osa e spinge le parole oltre il limite della loro possibilità.

Che cosa accade se usiamo le parole e le definizioni che gli scrittori inventarono per celebrare il calcio, per raccontare, ribaltando il flusso e risalendo la corrente, gli scrittori stessi? 

Come racconteremmo la vita di cinquanta autori di successo? Quale formazione comporremmo con i nostri miti letterari?

Antonio D’Orrico scrive nella sua postfazione: “Quanta sapienza calcistica e quanta sapienza letteraria Calzini riversa nelle sue figurine!”.

L’incrocio fra letteratura e calcio è ormai consolidato: grandi scrittori hanno narrato, in maniera diretta o indiretta, dei fatti calcistici e degli eroi che hanno calcato il prato verde.

Il terreno di confine è stato poi occupato, e spesso con notevoli risultati, da grandi giornalisti che hanno saputo creare definizioni mai tramontate.

L’eredità di Gianni Brera, per citare uno degli esempi più noti e riusciti, sta anche in un certo modo di guardare al calcio, tenendo uniti l’entusiasmo e il disincanto; l’amore e un leggero sospetto; la serietà e l’ironia tagliente.

Nel caso di Brera e di altri, verrebbe da dire che, al guizzo del campione sul campo, corrisponde la trovata dell’uomo di penna: l’uno segna o realizza l’assist perfetto (gli abatini dai piedi eccellenti); l’altro pennella con la parola e crea definizioni che reinventano il mondo del calcio, mostrandolo sotto un’altra luce, sotto un’altra voce.

Altre voci e altre penne hanno saputo raccontare il calcio, e ci sia lecito qui immaginare quali formazioni di calciatori/scrittori avrebbero proposto Edmondo Berselli e Beppe Viola.

Figurine
I grandi scrittori raccontati come campioni del pallone
Silvano Calzini
Ink, 2015
Pagine 152 , € 12,00

NAPOLI: ANTONIO FRESA CON I SUOI DELITTI ESEMPLARI NEL BEL PAESE

Bellissima iniziativa quella che vedrà in alcune date del mese di ottobre impegnato Antonio Fresa nella presentazione del sua raccolta di racconti dal titolo “Delitti esemplari nel bel paese”.

Fresa, docente di filosofia a Narni, giornalista, cultore ed anche scrittore sarà presente il 18 ottobre alle ore 17.00  a Laterza Agorà presso il Teatro Bellini con la partecipazione di Valeria Frescura, Vincenza Alfano e Giuseppe Ferraro.

Presso la libreria Mooks a Piazza Vanvitelli il 31 ottobre con la partecipazione di Floriana Coppola e Angelica Falcone

Fresa sottolinea “la mia regione di nascita – la Campania – e la mia regione di residenza – l’Umbria – sono accomunate dall’esperienza del terremoto che giunge a sconvolgere la vita delle comunità locali, incidendo indelebili ferite nella memoria e nel territorio. Sono abituato a precisare che mi sono allontanato dalla mia terra d’origine per scelta e non per necessità. Ancora vivo è, nella mia generazione, il ricordo di quella domenica del 23 novembre del 1980 in cui, con la forza improvvisa della natura, cambiarono tante cose e per sempre.”

Un incontro ricco di emozioni, e di grande fascino dove sarà possibile conoscere direttamente l’autore ma soprattutto accrescere il bagaglio personale di ognuno di noi.

Gianfranco Lari

 

IO LEGGO/9: MUSONIO L’ETRUSCO

Musonio l’Etrusco

di Antonio Fresa

 

Questa volta vi proponiamo una ricerca filosofica che ha però in sé la passione di un romanzo e la suggestione di temi universali che possono offrirci spunti anche nell’oggi.

Luciano Dottarelli ci aiuta a conoscere la vita e il pensiero di Gaio Musonio Rufo, detto l’Etrusco. Nella Roma di Nerone, la ricerca della libertà nella saggezza filosofica  ci stimolano a comprendere quest’originale autore che riprende, almeno in parte, la filosofia dell’età ellenistica.

Il testo che Luciano Dottarelli dedica a Gaio Musonio Rufo, detto l’Etrusco, appare particolarmente prezioso e riuscito per almeno tre ragioni: un’utile ricostruzione del clima filosofico che si diffonde nell’età ellenistica; un’appassionata analisi delle informazioni in nostro possesso su Musonio; un’attenta analisi del suo pensiero che alterna tratti di assoluta novità con elementi ripresi dalla scuola stoica. 

Il testo ci propone un resoconto delle vie di pensiero legate all’ellenismo e alla scomparsa della centralità politica della Grecia classica.

Epicureismo e stoicismo si affermano più propriamente come scuole filosofiche con una tradizione che si va consolidando e stratificando. Lo stoicismo, per una serie di ragioni che Dottarelli ricorda e rilegge, si propone come un’impostazione più duratura nel tempo e più disponibile, nelle sue tematiche e nelle sue attese, a lasciarsi catturare dai bisogni filosofico-esistenziali del mondo romano (Epitteto, Seneca, Marco Aurelio).

L’epicureismo risentirà spesso di fraintendimenti, non sempre giustificabili e in parte volontari, generati dalla diffidenza romana e dalla visione cristiana.

Lo scetticismo si propone, per completare il quadro delle filosofie dell’età ellenistica, non tanto quale compiuta scuola; esso appare piuttosto come uno stile o un’impostazione di pensiero che, come un fiume carsico, si ripresenta, con alterne fortune, lungo il corso della storia della filosofia.

Non è qui possibile ripercorre i documenti e le fonti che l’autore mette a disposizione del lettore per rendere chiari i legami fra la concezione religiosa propria degli etruschi e l’incontro con la tradizione dello stoicismo.

La vicenda di Musonio appare rilevante quando la si contestualizza negli anni del principato di Nerone e la s’incrocia con altre vicende che coinvolgono gli oppositori dell’imperatore.

Per una serie di vicende storiche, che è davvero impossibile qui ricostruire, le filosofie dell’età ellenistiche, con il loro carico di drammatico smarrimento, si rendono disponibili a una nuova vita tra le incertezze, gli eccessi e i malumori della Roma imperiale.

Musonio, un possibile “Socrate romano”, è testimone privilegiato di quel difficile rapporto fra filosofi e potere politico, uno degli aspetti più interessanti e complessi della storia della filosofia.

La dialettica fra impegno nella politica e nella gestione della cosa pubblica e la ricerca di una “distanza di sicurezza” dal potere politico è un aspetto essenziale per comprendere le diverse epoche, nelle loro inclinazioni alla libertà o al dispotismo (anche illuminato o “soccorso”).

La vicenda di Musonio, costretto all’esilio e poi ai lavori forzati, ma orgoglioso difensore della propria dignità umana, espressa nella fedeltà al proprio destino, aiuta a capire il successo dello stoicismo e il suo fondersi e con-fondersi con l’etica romana e con quella cristiana.

In quest’epoca di crisi, cioè un momento storico di passaggio che mette in discussione tutti i paradigmi e le categorie che ci avevano fatto da supporto nel vivere e progettare, può essere particolarmente interessante riflettere su alcuni passaggi della storia della filosofia.

Senza la presunzione di avventurarsi in ricostruzioni, anche soltanto parziali, del pensiero hegeliano o vichiano, è possibile raccontare il passaggio filosofico fra le varie epoche e culture come l’alternarsi fra lunghi rettilinei e stretti tornanti: i primi ci direbbero qualcosa dei momenti che possono apparire come stabili; i secondi potrebbero, invece, aiutarci a comprendere i mutamenti.

Proseguendo, non senza evidente rischio, in questa semplificazione, l’incontro tra la tradizione filosofica greca e quella più propriamente romana, offre numerosi spunti di riflessione e di complessità.

Si è chiamati a indagare anche il rapporto con il Cristianesimo e il suo dotarsi di uno strumentario filosofico ove, ai tratti innovativi e originali, si alternano la ripresa e la rilettura di una tradizione già consolidata.

In questi momenti di radicale trasformazione della società e delle strutture di potere, emergono personaggi che, pur potendo apparire come minori, sono capaci di restituirci pienamente lo spirito del tempo e di affrontare il drammatico rapporto con un potere politico spietato e violento.

Tanti altri temi sarebbero da trattare, ma li lasciamo alla curiosità del lettore.

 

Luciano Dottarelli
Musonio l’Etrusco
La filosofia come scienza di vita
2015, Annulli Editori
Pagine 176, € 10,00

IO LEGGO/8: ADDIO A BERLINO

Addio a Berlino

di Antonio Fresa

 

Questo davvero è  il caso di Addio a Berlino, il libro di Cristopher Isherwood che, come vedremo di seguito, ha avuto un grandissimo successo e numerose riletture fin dalla sua uscita.

La sua stessa struttura e natura – il diario di un osservatore straniero nella Germania che si avvia verso l’avvento del nazismo – hanno incuriosito e attratto i lettori per un alto valore letterario, ma anche per il suo essere un’occasione importante per riflettere sulla “resistibile” ascesa della dittatura e sulla caduta della Repubblica di Weimar.

Per porre in primo piano la rilevanza di questo “diario berlinese”, è sufficiente indicare le date entro cui si colloca la sua stesura: autunno 1930 – inverno 1932/33.

Uno sguardo che cade sulla città di Berlino e vaga per mettere a fuoco personaggi apparentemente lontani e separati.

Si va, infatti, da un’eccentrica, anziana affittacamere alla sensuale Sally Bowles, aspirante attrice un po’ svampita, a Otto, ombroso proletario diciassettenne, a Natalia Landauer, rampolla di una colta famiglia ebrea dell’alta società.

Sono tutti personaggi coinvolti in quella che Isherwood definisce la prova generale di una catastrofe, che si muovono tra cabaret e caffè, tra case signorili e squallide pensioni, tra il puzzo delle cucine e quello delle latrine, tra file per il pane e manifestazioni di piazza, tra crisi economica e cupa euforia.

Tutti, proprio tutti, saranno coinvolti – a diverso titolo e con ruoli differenti – nella resistibile ascesa del nazismo.

Le osservazioni e il racconto ci proiettano, quindi, nel pieno dell’ascesa del nazismo in un paese – la Germania – che dopo la catastrofe del primo conflitto mondiale e i punitivi trattati di pace, con l’avvento della Repubblica di Weimar e il lento mutare delle relazioni internazionali, sembrava in grado di voltare pagina in senso politico ed economico.

Le conseguenze della “grande crisi” del 1929 non tardano a farsi sentire e a innescare i processi che consentiranno, in pochissimi anni, l’ascesa di un dittatore come Hitler.

I fattori da analizzare sono – ovviamente – assai più vasti e compositi di quelli didascalicamente enunciati in questa sede.

Se è lecito ancora un riferimento, che potrebbe tornare utile in sede di approfondimento e per lo studio, è bene sempre riconsiderare la diversità nelle vicende che portano il fascismo al potere in Italia e il nazismo al potere in Germania.

Si riscontrano, infatti, nella pur necessaria volontà di analizzare nel complesso la definizione dei cosiddetti “totalitarismi”, una generalizzazione e una sovrapposizione che, collocando in primo piano la definizione del fenomeno generale, lasciano non sufficientemente espresse e dichiarate le dinamiche storiche che pure hanno prodotto i singoli eventi della storia.

La Germania si avvia alla sua tragedia e lo spirito tedesco sembra impregnato – come ha ricostruito uno storico attento come Walter Laqueur nel suo lavoro dall’ovvio titolo La Repubblica di Weimar (forse è in questo caso più rilevante il sottotitolo di un’edizione italiana dell’opera: Vita e morte di una società permissiva) – di una voglia di sopravvivenza generata dalla sconfitta nella prima guerra mondiale e da una sorta di smania a smarrirsi in un ottimismo senza basi.

Il motto che può sintetizzare lo stato d’animo di una parte dei tedeschi è ripreso, nella ricostruzione dello storico, dall’opera dell’umanista rinascimentale tedesco, Ulrich von Hutten: Es ist eine Lust zu leben (E’ una gioia essere vivi).

La gioia di essere sopravvissuti alla sconfitta non lascia intravedere la catastrofe che sopraggiunge.

Le pagine di Isherwood descrivono la stessa imbarazzante e inconsapevole attesa di una vita spasmodica capace di portare futuri successi che non hanno, però, alcuna base.

Addio a Berlino
Christopher Isherwood
Adelphi, 2013
Pagine 252, € 18,00

 

IO LEGGO/7: IL SORCIO

Il Sorcio

di Antonio Fresa

 

Piccola premessa

Questo romanzo di Simenon espone gli amanti dello scrittore belga a un’esperienza davvero particolare: questa non è un’inchiesta legata al famoso Commissario Maigret; questa è, però, una vicenda che del commissario conserva moltissimi elementi.

L’abilità di Simenon nel ricreare le atmosfere parigine care ai suoi lettori riesce a trasformare un’assenza in una presenza, in un fantasma che aleggia sulla storia con la sua pipa e il suo cappottone.

Il commissario Maigret non prende parte alla vicenda. I luoghi, i personaggi, i metodi sono però i suoi: collaboratori, odori, sapori, strade, locali pubblici di quella sua Parigi che sembra così unica e così banale a un tempo.

Come sempre nelle pagine di Simenon pochi tratti e poche parole riescono a restituire un’atmosfera, la costanza dei luoghi e il brulicare della vita: folla tanta e solitudine estrema che si sfiorano lungo le strade parigine dove si vive insieme senza quasi vedersi.

Lognon, Lucas e altri poliziotti sono quelli che, in molte occasioni, fanno da collaboratori o informatori del commissario e ci attenderemmo da un momento all’altro la sua apparizione con il tipico incedere e il fumo della sua pipa.

“Un Maigret senza Maigret” è stato definito questo romanzo, perché lo stile e le regole narrative sono quelli tipici delle inchieste più celebri.

La vicenda e il protagonista

Il Sorcio è un barbone gentile e quasi signorile che sbraca il lunario grazie ad un ampio repertorio di frasi batte, battute e facezie che gli conquistano la simpatia di quelli che si muovono in una Parigi fatta di teatri e locali all’aperto.

Il Sorcio, come ormai lo chiamano tutti gli agenti in servizio nei quartieri dove si sposta, passa la maggior parte delle sue notti nelle celle dei commissariati che sono diventati una sua seconda casa. Lo conoscono tutti e tutti lo tollerano ormai quasi con simpatia.

Nel suo passato c’è tutto un altro tipo di vita e nel suo agire c’è una sorta di malinconica accettazione del presente.

L’antagonista

In questa storia, almeno fino a un certo punto, il suo rivale è lo Scorbutico. Con questo soprannome non proprio lusinghiero, il Sorcio è solito riferirsi all’ispettore Lognon, un uomo cupo e chiuso, che non ha mai raggiunto gradi più alti nella gerarchia della Polizia parigina.

Il caso porta il Sorcio a ritrovare un’ingente somma di denaro e a poter quindi sognare una vecchiaia diversa e senza affanni. Il Sorcio non sa che dietro questo fortuito caso si cela un delitto eccellente che lo proietterà al centro di una vicenda pericolosa e più grande di lui.

Il caso è troppo grande anche per l’ispettore Lognon che è il primo a rendersi conto della complessità delle cose e che vedrà in quell’inchiesta la grande occasione della sua carriera.

Due uomini ai margini, due uomini che vorrebbero cambiare il proprio destino si ritrovano al centro di una vicenda che non li aveva previsti e non li aveva convocati: l’uno e l’altro affronteranno un piccolo calvario per sopravvivere agli eventi.

Infine due uomini che sembrano, in modi diversi, essere complementari e contrapposti al più noto personaggio di Simenon, quel commissario Maigret che continua ad aleggiare in queste pagine.

Un barbone e un ispettore; un senza tetto e senza casa; un ispettore che non sa risolvere gli enigmi del crimine: Maigret è, invece, in qualche modo casa, regolarità, serena convivenza familiare con la moglie, semplicità domestica, ma è anche un giovane ispettore che ha saputo raggiungere da uomo adulto l’ufficio più importante della Polizia giudiziaria di Parigi.

 

Georges Simenon
Il sorcio
Adelphi, 2017
€ 18,00, pagine 155

 

IO LEGGO/6: IL GIUDICE DELLE DONNE

Il giudice delle donne

di Antonio Fresa

 

Un gruppo di maestre delle Marche che, nei primi anni del Novecento, è protagonista di una lunga battaglia legale per conquistare il diritto al voto.

La durezza della vita quotidiana e le speranze per il futuro: emigrazione, miseria, politica, stampa e il duro lavoro quotidiano in una nazione che conosce una povertà diffusa.

Nella storia italiana, quasi a rimarcare un insuperabile ritardo storico, gli ultimi anni del diciannovesimo secolo sono conosciuti con la definizione di “crisi di fine secolo”: la sconfitta di Adua (1896); la repressione nel sangue delle proteste popolari (1898); il regicidio con la morte di Umberto I (1990).

Tre date che ci avvicinano al nuovo secolo con un’ansia senza limiti e con l’impressione che la situazione italiana non abbia grandi speranze.

Le vicende che Maria Rosa Cutrufelli ci narra si collocano tra il 1906 e il 1907, quando la Grande Esposizione di Milano porta una ventata di novità e di ottimismo in un paese che conosce un altissimo tasso di emigrazione. Alcune aree del paese sono davvero povere e anche i diritti basilari stentano a essere riconosciuti.

Un gruppo di donne – di maestre e maestrine – combatte la sua battaglia per vedersi riconosciuto il diritto al voto nelle larghe (o strette) maglie dello Statuto Albertino. Tra divieti non esplicitamente espressi e concessioni che dipendono dalla disposizione dell’interprete, dieci maestre elementari delle Marche diventano un caso nazionale e, per un breve periodo, si vedono riconosciute come elettrici.

Una battaglia che vede il rimbalzo di sentenze nei vari gradi di giudizio e l’incontro con Lodovico Mortara, il cosiddetto giudice delle donne.

Una battaglia che sta sullo sfondo del duro lavoro d’istruzione che queste maestre affrontano in un paese in cui spesso le scuole sono quasi palazzine diroccate.

Il vero nemico dell’alfabetizzazione è il diffuso e quasi necessario lavoro infantile che fa svuotare le aule delle scuole.

Un’altra parte della popolazione, dopo aver accumulato con enormi sacrifici il denaro per il biglietto, affronta il lungo viaggio verso l’America: un luogo lontano, quasi leggendario da amare e odiare a un tempo.

Teresa una bambina che nasconde un terribile segreto e che ha scelto di chiudersi in un mutismo dentro il quale scruta il mondo.

Alessandra, una giovane maestra esuberante, che fa parte di quella schiera di donne che, all’inizio del Novecento, si dedicò all’insegnamento: un lavoro innovativo e svolto con amore.

Adelmo, invece, intraprende la carriera nel neonato giornalismo moderno e si misura con le mille ingiustizie della vita.

Tanti altri personaggi ruotano intorno a questo trio portante: osservazioni, notizie, detti e parole piena di amarezza; un paese in trasformazione che deve ancora trovare un equilibrio tra la tradizione e la modernità agognata e temuta a un tempo.

Una storia che indaga nella e sulla vita di tante donne richiede un lungo lavoro di preparazione affinché l’autrice, parola dopo parola, alternando leggerezza e profondità, possa trovare la chiave giusta per introdurci nella vita dei suoi personaggi.

Una targa con una scritta, una traccia di memoria storica collocata in uno spazio urbano, dunque, spinge l’autrice a fare luce su di una vicenda storica singolare, esemplare e paradigmatica: l’autrice ha conservato dentro di sé le parole di quella targa e ha iniziato a elaborare una possibile storia che potesse restituire la vita, e l’impegno, i sogni e le delusioni di un gruppo di donne che si battono per i propri diritti.

Da un punto di vista storico, le ricostruzioni degli ultimi anni ci hanno consentito una riflessione e una condivisione sulle vicende che hanno portato le donne ad esercitare il diritto di voto.

Dopo la stagione fascista, all’alba della nostra democrazia, l’estensione del diritto di voto alle donne ha rappresentato di sicuro una speranza, una certezza, un monito affinché il nostro paese potesse dirsi una democrazia parlamentare compiuta.

Maria Rosa Cutrufelli
Il giudice delle donne
Frassinelli, 2016
€ 18,00, pagine 262

IO LEGGO/5: LA TRADUZIONE

La traduzione

di Antonio Fresa

 

Ci sono libri che ritornano nella memoria e che meriterebbero una maggiore attenzione. Tra questi, sicuramente, vogliamo ricordare La traduzione di Silvano Ceccherini, uno scrittore anomalo con una complessa vicenda personale.

Qualche anno fa è apparsa una nuova edizione del suo romanzo dedicato all’esperienza del carcere e alla fatica di cercare nella scrittura una sorta di riscatto. Sono ormai passati più di cinquant’anni dalla stagione del suo primo successo e La traduzione, è stata ripubblicata dalle edizioni elliot nel 2013.

Il romanzo di Silvano Ceccherini conobbe un rilevante successo al suo apparire nel 1963, anche per l’indubbia forza della storia narrata.

Ceccherini, segnato da una lunga condanna al carcere, si avvicinò alla letteratura quasi cercando un riscatto umano e morale, colpì, secondo una formula all’epoca abbastanza diffusa, la critica e il pubblico.

Per comprendere il favore con cui fu salutata la pubblicazione, bastano le parole di Alessandro Galante Garrone per La Stampa: “E’ un libro eccezionale non tanto per il fatto, già di per sé singolarissimo, che l’autore è carcerato egli stesso da quasi vent’anni (e palesi e frequenti sono gli spunti autobiografici), quanto per la testimonianza che esso ci offre di una caparbia, miracolosa volontà di sopravvivere, di preservare e affinare la propria intelligenza, di farsi scrittore di espandersi e rilevarsi in un parlar vero di cose umane. Anche Olgi, il protagonista del racconto, ha la passione dello scrivere e sa che la sua opera è l’unica cosa bella che uscirà da questa sua vita, come un fiore da un letamaio”.

Altri letterati e scrittori famosi si espressero sul lavoro di Ceccherini.

Carlo Cassola fece giungere il romanzo nelle mani di Giorgio Bassani che, commentando il romanzo, affermò: “Non abbiamo mai avuto molta fiducia nella letteratura dei non letterati, ma una volta tanto abbiamo avuto torto, torto marcio”.

Ceccherini è stato presentato da alcuni come il “Jean Genet italiano” per le esperienze di vita che in qualche modo lo accomunano allo scrittore francese. Ceccherini scontava in carcere gli ultimi mesi della sua condanna quando La traduzione, il suo primo romanzo, fu pubblicato da Feltrinelli.

La traduzione, nel freddo linguaggio della burocrazia carceraria, è un momento di passaggio e di sospensione che porta il detenuto da un carcere all’altro.

Lo spostamento può essere anche lungo e conoscere tappe numerose e rilevanti.

S’incontrano tanti altri detenuti in transito da un luogo all’altro o stabili nelle singole prigioni attraversate.

A ben guardare, nel racconto di Ceccherini, in fondo, la traduzione è quasi un momento positivo, perché concede almeno la sensazione dell’uscita dalla pesante vita quotidiana del carcere.

Il poco di mondo intravisto dal vagone, le parole ascoltate qui e lì, i vizi di un’umanità sempre dolente, i dibattiti tra chi ha ancora pochi mesi da scontare e chi ha ancora lunghi anni davanti, inducono Olgi Valnisi a riflettere sulla sua vita e sulla sua inesausta voglia di scrivere, raccontare, narrare.

Olgi Valnisi abbina la saggezza dell’uomo che ha già passato una lunga stagione in carcere alla disperazione di chi sente la vita sfuggire senza senso.

Ondeggia, Olgi Valnisi, tra il desiderio di morire (il suo cuore gli ha già giocato qualche brutto scherzo) e la voglia di vivere ancora.

Accetta Olgi Valnisi con bonomia e comprensione le bugie che i suoi compagni di viaggio devono raccontarsi per andare avanti e ammira chi, nel deserto del carcere, continua ad amare una persona o un sogno proiettandosi così oltre i limiti della propria cella.

La traduzione, dal punto di vista burocratico, è incompleta perché Olgi Valnisi muore lungo i binari della ferrovia, tra un treno e l’altro, tra un passaggio e l’altro, tra una frase e l’altra.

Muore sorridendo, convinto che il suo destino sia compiuto; sorridendo per la gentilezza e il rispetto che ha saputo donare all’ultima donna che ha incontrato, una giovane cameriera che serviva i carabinieri della scorta.

 


Silvano Ceccherini
La traduzione
Elliot, 2013
pp. 254, € 18,50

 

 

 

IO LEGGO/4: IL DOLORE DEL TIGLIO

Il dolore del tiglio

di Antonio Fresa

Una donna che, amando senza riserve, diventa la vittima di un uomo violento; un lento cammino per ritornare a essere padrona della propria esistenza. Un romanzo intenso e dalle mille voci che ci conducono nel cuore della vicenda. Una storia che sembra un modello di resilienza e di coraggio.

Laura Scanu ci racconta la storia di Lucilla, miscelando la voce della protagonista con quelle delle tante persone che interagiscono con il suo dolore.

La nostra breve presentazione del romanzo di Laura Scanu, Il dolore del tiglio, deve necessariamente riferirsi alla frase che fa da sottotitolo: Per un metallo la resilienza è il contrario della fragilità. Per una donna anche.

Ci sembra utile e indicativo riportare anche le domande con le quali si apre la postfazione che Stefano Scatena ha dedicato al romanzo.

E’ utile riportarle perché sono domande importanti e utili a indirizzare la lettura e collocarla in una riflessione necessaria, quasi obbligatoria nella nostra società: “Cosa spinge una donna nella nostra epoca di emancipazione a sopportare il peso di una relazione con un uomo violento? Cosa prova nell’interminabile scorrere del tempo, appesa a una speranza flebile, presente solo nella sua mente?”.

Queste domande, dicevamo appena sopra, devono essere viste come un’opportunità per fermarci a riflettere; la cronaca corrente, con il suo vociare, sembra mostrare tutto e spiegare tutto, mentre in realtà non mostra e non spiega e ci lascia attoniti a cospetto del moltiplicarsi degli episodi di violenza nell’ambito di quelle che dovrebbero essere le relazioni affettive più protettive e rassicuranti.

La violenza sulle donne, nelle sue varie forme, non è lontana e insidia la vita di tutti noi senza autorizzare nessuno a volgere la testa e passare oltre. Siamo tutti chiamati a interrogarci su quei comportamenti che, forse con presunzione, la nostra epoca e la nostra cultura volevano dare come superati.

La violenza, e questa è una certezza che dobbiamo necessariamente condividere, non può appartenere, come comodamente sentiamo ancora dire a più riprese, allo spazio privato della coppia e della relazione.

Lucilla si era innamorata, quando meno se l’aspettava, senza condizioni, senza paure, senza troppe riflessioni.

Lui era apparso improvvisamente nella sua vita, e lei si era arresa senza alcuna protezione, senza alcun limite, non temendo niente.

Lui era apparso con simpatia, come un uomo che sappia offrire un amore dolce e necessario. Le sue parole erano state avvolgenti e le sue premure avevano scavalcato ogni preclusione.

Un giorno, un gesto, un atto, una violenza senza perché si presentano in un istante: la mano di lui colpisce Lucilla, inattesa e improvvisa e tutto cambia. La tela dell’amore si squarcia e da essa emerge una persona nuova, inattesa, violenta, opprimente, cattiva, subdola.

Il dolore e la sorpresa si fondono, con lo stupore, con l’ingiustizia, con la storia, con il silenzio, con il segreto. Raccontare o tacere? Chiedere aiuto o attendere? Farsi complice del carnefice o allontanarsi dal pericolo?

L’idea di quel rapporto che sembrava amore si frantuma in mille parti di vetro tagliente e il desiderio di salvare almeno la visione dell’amore, la costringe a non aver cura del proprio dolore.

Lucilla resterà per un lungo tempo come imprigionata nelle proprie domande. Perché è accaduto questo evento? Perché lui mi ha colpito con tanta malvagia durezza? Domande, una catena di domande e un dubbio fatale che consegna la vittima al carnefice: forse non è accaduto…forse ho fatto qualcosa che…

Gli episodi si ripetono; e la violenza cresce e si fa aggressiva e lesiva.

Con la necessaria durezza e un’indubbia incisività, Laura Scanu ci prende per mano e ci fa seguire Lucilla e le sue relazioni con quelli che vorrebbero lei proteggerla, amarla, restituirla a se stessa.

Questo insieme di voci, pur narrandoci l’immensità di un dolore, serve a Laura Scanu a farci comprendere il cammino attraverso il quale Lucilla riesce, un passo dopo l’altro, a fare i conti con la brutalità del proprio uomo e a separare il proprio destino da quello di lui.

Senza troppo svelare della trama del romanzo, ci piace ricordare Lucilla con una valigia, per un viaggio, con un treno, per un incontro.

Lucilla finisce col trasformare il suo nome e concedere a se stessa una nuova vita e una nuova speranza di serenità accolta da altre donne.

Laura Scanu
Il dolore del tiglio
DAVID AND MATTHAUS, 2016
pagine 82, € 9,90

 

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