IO LEGGO/2: DELITTI ESEMPLARI NEL BEL PAESE
Non è facile presentare un proprio libro. Dovrei scrivere della mia raccolta di racconti “Delitti esemplari nel bel paese” e raccontarvi dei temi che sono affrontati nei diversi testi che la compongono. La lettura la lascio ai lettori.
Proverò, invece, a illustrare le riflessioni e le osservazioni che sono, per così dire, dietro al testo.
La mia regione di nascita – la Campania – e la mia regione di residenza – l’Umbria – sono accomunate dall’esperienza del terremoto che giunge a sconvolgere la vita delle comunità locali, incidendo indelebili ferite nella memoria e nel territorio.
(Prima di proseguire, sono abituato a precisare che mi sono allontanato dalla mia terra d’origine per scelta e non per necessità).
Ancora vivo è, nella mia generazione, il ricordo di quella domenica del 23 novembre del 1980 in cui, con la forza improvvisa della natura, cambiarono tante cose e per sempre.
Il titolo del quotidiano “Il Mattino” di Napoli è ancora lì a testimoniare la drammaticità della situazione che si creò in quelle ore e in quelle giornate: “Fate presto”.
Le parole di Sandro Pertini diedero voce allo sconcerto di una popolazione che fu assistita con notevole ritardo e impreparazione. Non c’era allora una cultura della protezione civile e un’organizzazione in grado di mobilitarsi in poche ore.
Emerse chiara, quindi, la necessità di dotarsi di strumenti di intervento e prevenzione e si avviò un cammino davvero importante.
Questa lunga premessa serve a indicare che la protezione civile è ormai considerata una necessità e la cultura della prevenzione si dimostra fondamentale.
Insieme con questi aspetti strutturali, va notato che noi italiani sembriamo essere molto solidali nelle emergenze, capaci di grandi gesti nelle calamità, pronti a fare gruppo o squadra quando sentiamo la minaccia del fallimento totale.
La cronaca ci sommerge con la sua violenza quotidiana e ogni volta che abbiamo immaginato che si fosse raggiunto un limite invalicabile siamo stati smentiti dai fatti e dalla brutalità. E allora, necessarie e ineludibili, sorgono alcune domande e gli interrogativi si fanno pressanti per la volontà di sentirsi ancora cittadini di una comunità e di uno Stato.
Negli anni è stata creata una struttura di protezione civile; non è forse del tutto peregrina l’idea di una sorta di protezione civile psicologica che intervenga su quella che sembra essere una continua emergenza.
I terremoti mettono in crisi le strutture portanti degli edifici e determinano effetti a volte imprevedibili; che cosa accade con i “terremoti interiori”? che cosa fa collassare le strutture dei singoli che sembravano così strutturati e resistenti?
In queste riflessioni non ci riferiamo ai delitti che hanno precise finalità economiche o sono espressione di grandi interessi malavitosi. Può apparire quasi cinico ma questo tipo di delitti sembra, per certi versi, comprensibile e collocabile.
Ci riferiamo, piuttosto, a tutti quei delitti che provengono dalla cronaca spicciola della nostra penisola; delitti che non conoscono una precisa delimitazione geografica, sociale, culturale o ambientale.
Nelle cronache si legge, spesso e ripetutamente, il commento dei vicini, dei conoscenti, degli amici dell’assassino di turno: “Fino a ieri era stata sempre una brava persona, gentile quasi”.
E, dunque, quale terremoto interiore trasforma un uomo “normale” in un assassino? Perché le sue strutture portanti non reggono più? Con una frase fatta: qual è la goccia che fa traboccare il vaso e mette in crisi un equilibrio che appariva consolidato?
Quell’uomo conduce la sua esistenza e sembra in grado di reggere. C’è poi un istante, un evento che scatena una reazione inusitata in cui, in genere, non c’è proporzione fra lo stimolo e la risposta.
Ogni giorno parlo con tante persone che hanno paura di non farcela; hanno paura di non avere un futuro; hanno paura che non ci sia un futuro per i loro figli o non fanno figli perché hanno paura; corrono, si agitano, si stressano e camminano come se portassero sulla testa una grande colonna di marmo.
Un peso che ti schiaccia a terra e ti angoscia: il mutuo, il lavoro precario, la volontà di non pensare al passato e quindi al futuro.
Siamo tutti, chi più e chi meno, soli e abbiamo l’impressione di doverci difendere da soli da invasioni e ingerenze di ogni genere. Non ci sono più strutture di collegamento sociale dai partiti alle parrocchie, non ci sono più certezze storiche e ci sente esclusi. Le classi medie scompaiono e l’idea stessa di democrazia sembra andare in tilt….e così via e così via.
In questo contesto, l’altro diventa il mio nemico; l’altro diventa il mio antagonista e tutto quello che si frappone fra il mio bisogno e la sua soddisfazione diventa qualcosa da aggredire e, nel caso, distruggere.
E’ sufficiente entrare in una scuola, in un ospedale, in un ufficio postale per comprendere che ognuno di noi può scegliere il suo nemico di turno.
Io devo risolvere il mio problema e chiunque si frappone sulla mia strada è un nemico; così come nemiche sono le regole e le leggi che non costituiscono più il collante della comunità ma lo strumento che qualcuno usa per vessarmi.
Ogni giorno parlo con tante persone e sono davvero stanco di un atteggiamento ripetuto e continuo.
Il mondo è cambiato; c’è la globalizzazione; la complessità ci stravolge; nessuno ci capisce niente e così via e così via: in tanti mi dicono di non riuscire a capire che cosa stia accadendo; in tanti mi testimoniano la difficoltà ad interpretare una realtà che cambia troppo velocemente.
Eppure volete sapere che cosa fanno queste stesse persone un minuto dopo? Mi spiegano tutto; hanno capito tutto; analizzano tutto.
Come fanno, vi chiederete voi?
E’ un processo semplice ed elementare; naturale direi.
Nel mentre denunciano la complessità della situazione, riducono tutto ad un unico fattore e con quel fattore vogliono spiegare la realtà nella sua interezza.
S’innamorano della loro idea; si affezionano alla loro idea e il dialogo è già morto. La parola non serve a comunicare ma a ribadire; la parola non serve ad entrare in contatto ma a proteggere e delimitare.
La mia generazione ha visto costruire e distruggere un muro che è divenuto simbolo di un mondo spezzato; poi abbiamo festeggiato, aspettandoci forse troppo, quando esso è stato abbattuto.
E oggi si torna a parlare di muri da più parti; quelli fisici in fondo si possono abbattere. Sono quelli mentali che spaventano: basta variare la scala e si riconosce un modo di pensare che si diffonde sempre più.
La paura del vasto, dell’ampio, del plurale, del misto, del commisto, del confuso, del molteplice, del meticcio: ecco il metodo del fattore unico, di quello che spiega tutto; ecco il metodo della nazione solitaria; ecco il metodo della difesa.
Così, mentre si paga il prezzo della solitudine, molti si rifugiano nell’inane canto della singolarità.
E l’altro non è più una risorsa con la quale fare “insieme” di più e meglio; l’altro diventa un nemico, un intralcio, un ostacolo, un fattore negativo.
Non so se l’indignazione è in grado di produrre ancora qualcosa in questo paese.
Forse, almeno, due le possibili pretese da conservare: la prima è la piena, convinta e necessaria consapevolezza che le cose potrebbero anche andare in un altro modo; l’altra è che ognuno di noi può e deve scegliere di non essere complice dei comportamenti correnti, se essi non appaiono come onesti e corretti.
Piccole cose, mi direte, piccole soddisfazioni da coglioni, da stupidoni affetti ancora dalla speranza di un miglioramento, in quel campo quasi vergine nel nostro paese, che è l’etica pubblica.
Non assumo posizioni, presuntuoso o pretestuoso; v’invito a verificare la mia segnalazione in merito a aspetti appena marginali del vivere comune.
Il ragionamento serve a indicare che nessuno è senza colpa. Nel campo che insieme esploriamo dei “delitti esemplari”, il reato e la colpa sono massimi e, quindi, esecrabili a prescindere.
In tanti altri campi, abbiamo appreso tecniche di autoassoluzione che ci tengono al riparo dalla necessità del rigore.
La giustificazione delle proprie azioni come necessarie all’ordine del mondo, o come congeniali allo stato del mondo, non mi è mai piaciuta.
Eccola, la piccola sospensione della legalità, contrattata a livello locale, da ogni amministrazione con i propri cittadini, all’ingresso e all’uscita delle scuole.
Le regole e i segnali ci sono, in alcuni casi ci sarebbero anche i tutori dell’ordine, ma la pausa della legalità è tacita.
Le automobili sono ovunque, anche se a pochi metri ci sarebbe un parcheggio. Il terreno di scambio è noto e folle di mamme, nonni e padri ignorano ogni regola, mentre prelevano i loro figli da quelle scuole dalle quali invocano trasparenza e correttezza.
Con auto incolonnate in divieto di sosta, seconda fila e terza fila, discettano amabilmente, gente che mai toccò un libro, di spropositati assegni, di inettitudine professionale, di cieco accanimento verso il loro povero figlio.
Mi direte voi, convinti di aver ben più chiaro l’equilibrio del mondo, che tale condizione dura, almeno in alcuni luoghi, per un piccolo quarto d’ora.
Ingenue e assolutorie le vostre parole; questi soggetti replicheranno questo modo d’essere quando portano il pargolo al calcetto, quando lo portano dalla nonna, quando vanno a fare la spesa. Il loro quarto d’ora, come quello di notorietà, si dilata nel cosmo e diviene normalità e premura.
Tutti presi dalla crisi economica dimentichiamo forse una crisi etica che ci coinvolge. Non si tratta, in queste parole, di ergersi a giudici. Si tratta, piuttosto e tristemente, di riflettere sulla coesione sociale di questo nostro paese.
In tutta la nostra penisola, senza esclusione di aree più o meno felici, osservando i diversi episodi, si assiste a una crisi che qualcuno ha definito normativa: alla base della violenza, si intravede spesso, la pretesa di trasformare le proprie esigenze in regola o alterazione della regola.
In ogni città italiana, senza esclusione, lo spazio condiviso è invaso da qualcuno che deve parcheggiare e deve, quindi, trasformare il collettivo in personale.
In fondo a che cosa servono le strisce pedonali, le rampe per i disabili, gli spazi assegnati alla sosta dei meno fortunati?
La legalità parte dalle piccole cose che non sono inutili dettagli. Il declino si nasconde nell’assuefazione e in una percezione di normalità che estingue lo sdegno e ridicolizza la denuncia.
L’uso privato dello spazio pubblico è prassi nella politica. L’uso privato dello spazio pubblico è un male fisico e simbolico, che lega il problema del parcheggio alla crisi della giustizia e così via fino al trionfo delle mafie.
Si determina una catena della sopraffazione che, col tempo e con il silenzio, avvolge di sé ogni settore della vita: mi prendo ciò che ritengo utile per me. Non c’è bisogno di analizzare la storia di alcune aree di questo nostro paese per comprendere dove conduca questa visione del mondo.
Applicate questo ragionamento ad altri campi del vivere comune, ad esempio il pagamento delle tasse e l’abusivismo edilizio, per limitarsi a due orizzonti, e vi renderete conto.
Antonio Fresa Delitti esemplari nel Bel Paese L’Erudita, 2016 Pagine 124, € 13.00